Pepe Mujica, una vita suprema

(El Pepe, una vida suprema)

Film

Documentario

Emir Kusturica segue Mujica nel suo ultimo giorno da (amatissimo) Presidente dell'Uruguay.

diEmir Kusturica

conPepe Mujica

durata: 74 min. produzione: ARG (2018)

Le mani di un anziano che prepara il mate. Lo versa in un recipiente, poi lo sputacchia: perché il primo sorso va sempre buttato. Dopo lo sputacchio, lo offre all'altra persona, che nel frattempo ha acceso un sigaro modello Gambadilegno. L'anziano è Pepe Mujica, icona di resistenza, lotta rivoluzionaria, coerenza ai propri princìpi. Un Che Guevara dell'Uruguay, a voler semplificare. Uno che ha fatto la guerriglia, che si è fatto dodici anni di galera disumana, isolato in un pozzo, senza contatti con nessuno. E che poi, di quello stesso Uruguay che lo aveva seppellito vivo, è diventato il presidente.

L'altro, quello col sigaro, è Kusturica. Il regista di questo documentario, e anche di film che hanno segnato gli ultimi vent'anni del cinema d'autore europeo, premiati con il Leone d'oro, due Palme d'oro, l'Orso d'argento. Regista che però, lo capisci benissimo, ama molto sentirsi un outsider, un ribelle, un fuoriclasse sregolato. Come Maradona, a cui ha dedicato un suo documentario precedente, e come Pepe Mujica. E, anche, regista che sembra sempre più ansioso di mostrarsi anche davanti alla telecamera: accanto a Maradona, o accanto a Monica Bellucci nell'ultimo film narrativo, "La vita è un miracolo". O accanto a Pepe Mujica. Come a suggerire allo spettatore un paragone implicito.

C'è tutto del film, in quella prima scena. L'ego di Kusturica, la semplicità di Mujica che riesce a rendere semplice e vero anche un momento retorico. E una telecamera traballante.

È come passare un giorno con Mujica, vedere il film di Kusturica. E in effetti, il film lo segue nel suo ultimo giorno da presidente dell'Uruguay, 1 marzo 2015. Il giorno in cui ha preso il suo vecchio Maggiolino Volkswagen, quello che non vuole vendere a nessun costo, ed è andato a Montevideo, dove lo aspettavano duecentomila uruguaiani commossi. È come passare un giorno con Mujica, con immagini mai curate, sempre un po' sghembe, affrettate, casuali. Però sono sufficienti. Sono sufficienti a farcelo afferrare, a farcelo intuire.

Anche le interviste ai suoi compagni di lotta rivoluzionaria e di carcere, lo scrittore Mauricio Rosencof e Eleuterio Huidobro, sono realizzate senza cavalletto: eppure entrambi sono fermi, la situazione è tranquilla, tempo per sistemare tutto probabilmente ce n'era. Ma è così, prendere o lasciare.

C'è una costruzione molto retorica del documentario: Mujica nel suo trattore, i suoi compagni di prigionia, oggi protagonisti della vita culturale e politica uruguaiana, che parlano di lui. Le interviste alla moglie, Lucia Topolansky, compagna di guerriglia del Pepe e oggi vicepresidente dell'Uruguay; Mujica con Obama alla Casa Bianca, Mujica con Papa Francesco. Tutto un po' agiografico: ma è proprio lui, Pepe, così "normale", così antiretorico, il primo anticorpo alla retorica che dispiega Kusturica. E paradossalmente, filmare Pepe Mujica con una telecamera sempre un po' fuori posto può raccontare bene il suo sentirsi uno fra i tanti, uno a cui non fare un monumento, neanche fotografico.

E, lontano dal monumento, vediamo il Pepe nella sua serra, camicie e pantaloni senza forma e quasi senza colore, certo senza glamour. Lo vediamo sul trattore o mentre frigge cipolle. La sua storia, e quella di Huidobro, di Rosencof, di Lucia Topolansky, le intuiamo da spezzoni di discorsi, ma non la vediamo nel suo quadro generale. Se volessimo vedere il racconto secco, implacabile e lugubre di quella repressione feroce, dovremmo vedere Una notte di 12 anni di Alvaro Brechner. Ma se vogliamo sentire il respiro, il sentimento del vivere del Pepe, allora il film da vedere è questo.

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